Mediazioni e mediazione familiare: storia di una tradizione antica

Mediazioni e mediazione familiare: storia di una tradizione antica

Lo scopo del processo di mediazione può essere ben descritto dalle parole di Humphrey quando scrive che “la maggior parte del nostro tempo viene spesa nell’analizzare le differenze. Ora concentratevi sulle somiglianze, su ciò che è comune tra gli opposti…cercate il terzo che sta al di sopra di tutti gli opposti…cercate questa relazione e sarete più benevoli verso ognuna delle coppie oppositive“.
La mediazione per certi aspetti può essere considerata il prodotto della società contemporanea dove è diffusa la tendenza a credere che il caos dominatore del mondo prima o poi verrà spazzato via dal dominio della razionalità; Bauman sostiene che il caos sarà sempre presente nei sistemi sociali, e l’unica soluzione sia quella di accettarlo come dimensione che da sempre caratterizza la convivenza degli uomini, pensando, invece, ad un concetto di ordine nuovo fondato sulla negoziazione e sul consenso e, perché no, su quello che Zagrebelsky considera “la necessità…dell’integrazione attraverso l’intreccio di…procedure comunicative“.

Tuttavia si sa che gli interventi di pratiche e gestione delle liti sono stati attuati già a partire da epoche piuttosto remote, dimostrando come la logica triadica e trasversale dell’informalismo (alternativa al diritto) abbracci numerose culture: “La conciliazione e la mediazione hanno una lunga storia in molte culture: molte società di tutto il mondo hanno infatti sviluppato metodi pacifici per risolvere le dispute tra i singoli, le famiglie o i gruppi tribali, avvalendosi di una terza parte neutrale che aiuta i contendenti a negoziare soluzioni accettabili per entrambi” (L. Parkinson, 1995).

Morineau ci rimanda alle prime applicazioni della pratica, descrivendo, appunto, la mediazione come un approccio antico, un vero rito la cui funzione era quella di accettare la sofferenza e generare un cambiamento, “è l’ostacolo” – scrive l’autrice – “che deve essere incontrato affinché esso possa essere superato“.
Si inizia a parlare, infatti, di mediazione nel quinto secolo a.C., quando in Cina Confucio, avvertendo degli esiti potenzialmente negativi del processo che avrebbe potuto lasciare i contendenti insoddisfatti e incapaci di cooperare, invita il popolo a rivolgersi ad un terzo neutrale che avrebbe facilitato il raggiungimento di un accordo.
Si sa anche, dagli scritti di Gulliver e di Roberts degli anni settanta, che in certe regioni africane è molto remota la tradizione di chiedere ad un consiglio di anziani di intervenire e risolvere le controversie tra villaggi o tra famiglie del villaggio.
Nel 1923 Grinnel descrive, tra i doveri dei capo Cheyenne, quello di pacificare e intervenire per risolvere qualsiasi lite fosse sorta nel campo.
In Inghilterra i primi tentativi di conciliazione compaiono intorno al 1860 in ambito delle controversie industriali.
Ma il Jewish Conciliation Board, istituito nel 1920 a New York dalle comunità ebraiche, può essere considerato la prima forma di istituzionalizzazione dell’attività di mediazione. Questo era un vero e proprio comitato di conciliazione riconosciuto che promuoveva la risoluzione pacifica e consensuale delle dispute, un anticipatore delle attuali camere di conciliazione e dei centri specializzati di mediazione.

Tra i personaggi noti più vicini alla nostra epoca, si possono rintracciare mediatori veramente d’eccezione: Nelson Mandela, ex presidente del Sud Africa, è stato un mediatore internazionale fondamentale che nel 2000 ha facilitato la cooperazione tra politici e scienziati al fine di trovare un accordo sul problema della lotta all’AIDS; Kim Dae Jung nel 2000 ha ricevuto il premio nobel per la pace grazie al suo lavoro di mediatrice finalizzato a stabilire un accordo di pace tra la Corea del Nord e La Corea del Sud, di cui era presidentessa. E via dicendo.

La cultura della mediazione cambia da Paese a Paese e la sua l’applicazione può riguardare vari ambiti di intervento, a partire da quello culturale, lavorativo, culturale, sanitario, scolastico, fino arrivare a quello familiare.
Nella Cina moderna il percorso di mediazione è obbligatorio e disponibile ovunque e si ricorre ad esso per la risoluzione di qualsiasi tipo di controversia, da quelle in ambito lavorativo a quelle familiari, e, come in Giappone, i principi ispiratori dei professionisti cinesi coincidono con i valori morali condivisi dalla comunità di appartenenza: in questo contesto essi stimolano le parti a risolvere le divergenze non solo per il bene del nucleo in cui si realizza il conflitto, ma anche per il bene della società tutta, in un contesto culturale, dunque, dove il nucleo familiare o lavorativo riflettono la comunità intera.
Nei Paesi europei sono state promulgate delle leggi affinché i tribunali indirizzassero le parti ad un percorso di mediazione allo scopo di sostenere e promuovere i sistemi extragiudiziali di soluzione di conflitti.
Questo breve excursus storico ci è servito per sottolineare, dunque, che la cultura della mediazione non è affatto un fenomeno recente, ma una necessità che non conosce confini geografici e temporali e potremmo concludere, con le parole di Kruk, che definisce la mediazione come “lo stare in mezzo” da parte di un terzo imparziale che interviene per ristabilire o facilitare la comunicazione interrotta da un grado di conflitto più o meno elevato al fine di trovare una soluzione appropriata al problema presentato.

La mediazione familiare

La diffusione e la trasformazione concettuale della cultura della mediazione nell’ambito degli interventi familiari risale agli inizi degli anni ’50.
La Gran Bretagna e gli Stati Uniti hanno dato il via a questa evoluzione culturale.
Infatti, fino ad allora nel 70% delle cause matrimoniali si attuava un intervento di conciliazione finalizzato all’incoraggiamento della ri-conciliazione, della riunione delle parti per evitare il divorzio. Tuttavia, poiché la percentuale di questi aumentava, intorno agli anni ’70 i funzionari addetti al probation service, ossia i conciliatori (che altro non erano che ecclesiastici, donne-poliziotto o cancellieri di tribunali) abbandonarono l’attività di consulenza ri-conciliatoria per metterne in atto una mediativa; si iniziò, dunque, ad usare la conciliazione come processo in cui una terza persona imparziale aiutava i membri della famiglia in rottura a comunicare in modo più pacifico e funzionale al raggiungimento di un accordo riguardante la situazione patrimoniale, i figli o quant’altro.
Il Rapporto Finer sulle famiglie monogenitoriali del 1974 raccomandava, infatti, che la conciliazione/mediazione fosse considerata la via privilegiata per condurre le coppie al raggiungimento di un accordo senza un processo.
In ambito familiare è del 1996 il Family Law Act che, in Inghilterra e in Galles, promuove la mediazione familiare per risolvere i conflitti riguardanti le questioni relative alle finanze, alle proprietà, alla gestione dei figli.
Lo scopo della mediazione coincide con la tecnica: generare buonsenso, ragionevolezza e ristabilire una comunicazione circolare per trovare quel che è comune tra gli opposti.

La mediazione, insieme al negoziato (diretto e indiretto) e all’arbitrato, fa parte delle cosiddette alternative dispute resolution ma con evidenti differenze: nel negoziato diretto le parti trovano direttamente tra loro l’accordo che viene, successivamente, fatto approvare dal tribunale o dall’autorità amministrativa; in quello indiretto, invece, il conflitto è tale per cui è necessaria la nomina di legali rappresentanti che arrivano all’accordo per i loro clienti; nell’arbitrato la decisione è presa direttamente dall’arbitro ed è vincolante, non ci sono in genere consultazioni con le parti.
Nella mediazione un terzo imparziale si cala nel conflitto e coglie quegli aspetti di condivisione tra le parti che sono comunque presenti anche nella situazione di radicalità delle posizioni, le isola e le mette in circolo facendo sì che si possa giungere a compromessi accettabili per ognuno.
La scelta del termine non è casuale: i mediatori sono imparziali nel senso che non si pongono da nessuna di parte, sono equidistanti (o “equivicini” se si preferisce), tuttavia non sono neutrali, non potrebbero esserlo, dal momento che hanno in sé dei valori. A questo proposito, Dingall e Greatbatch (1991) sostengono che “qualunque terza parte non può evitare di influenzare… il contenuto dei… negoziati. Il mediatore interviene selettivamente, secondo modalità che possono trasmettere o rinforzare certi valori”.

In America, ma ormai anche in Europa (soprattutto in Inghilterra), la cultura della mediazione è abbastanza diffusa; per quel che riguarda l’Italia, è solo da qualche anno che si inizia a parlare di mediazione, soprattutto in ambito familiare (Parkinson, 1997).
Tuttavia, la cultura della mediazione come un concetto generale è una proposta di superamento del conflitto tra due posizioni apparentemente inconciliabili che si applica anche ad altri ambiti, come, ad esempio, quello della politica. Tale cultura si distanzia sia dal pensiero antico che da quello moderno per situarsi nella dimensione della post-modernità intesa “non in senso cronologico… come di un inizio che può coincidere solo con la fine o il dissolversi della modernità” (Bauman, 1996, p. 16), ma come categoria a-temporale, cioè come modalità critica di guardare all’età moderna che convive con la modernità stessa. La mediazione si differenzia dalle pratiche antiche dal momento che non si inserisce in un contesto comunitario, ma in una società: mentre la comunità, infatti, è costituita da un insieme condiviso di valori, di credenze e di stili di vita, la società è caratterizzata da un pluralismo di valori e di sistemi di vita diversi, alternativi.

L’obiettivo più ambizioso della mediazione, dunque, non è quello di proporre nuovi valori, ma di mettere in comunicazione quelli portati da ogni individuo. In ambito familiare, la mediazione lavora sulla responsabilità delle persone coinvolte ad assumere degli impegni come sintomo della volontà di cambiamento; è importante sottolineare l’aspetto progettuale della responsabilità, cioè la proiezione verso il futuro (Foddai, 2003).

Per concludere, possiamo fornire una lettura in termini psicologici degli effetti degli interventi di mediazione e sostenere che questi trasformano una gestalt disfunzionale in una più efficiente e adattativa agendo in un campo di azione dinamico e potenzialmente creativo come quello del conflitto, dove le parti sono portatrici di valori e idee diverse, la mediazione facilita la comunicazione riducendo i toni del conflitto e interrompendo la reiterazione delle modalità distruttive di comunicare, esalta la diversità delle posizioni sottolineandone le potenzialità rispettive e i punti di convergenza, aiuta le parti a trovare strategie di problem solving più efficaci delle precedenti.

 Laura Tiberi

fonte: www.educare.it – Anno XI, N. 11, ottobre 2011