L’ascolto del minore in mediazione

L’ascolto del minore in mediazione

Come in tutte le discipline e pratiche professionali, anche nella mediazione familiare esistono temi su cui non è presente un accordo comune e su cui il dibattito è aperto.

Uno di questi è la possibilità, e quindi l’utilità, di ascoltare o meno il/i minori durante il percorso di mediazione.

 L’ascolto del minore in chiave giuridica

 In tal senso è da poco che si è passato da provvedimenti atti a proteggere il bambino a provvedimenti atti a definire i diritti che essi hanno. Si può infatti affermare che dalla “Dichiarazione dei diritti del fanciullo” (1925) alla “Carta dei diritti del fanciullo” (1959), dalle Regole di Pechino (1985) alla Convenzione ONU sui diritti dell’Infanzia (1989) e fino alla Convenzione di Strasburgo (1996) è cresciuta sempre più la cultura della centralità del minore considerato come persona avente diritti.

Nel caso specifico, di nostro interesse, l’attenzione va posta sulla convenzione internazionale dei Diritti dell’Infanzia stilata dalle Nazioni Unite nel 1989.

In particolare, l’articolo 12 di tale documento recita: “Gli Stati parti garantiscono al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa, le opinioni del fanciullo essendo debitamente prese in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità.

A tal fine, si darà in particolare al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale.”.

Tale articolo solleva la questione a livello internazionale, ponendo perciò l’attenzione sul diritto che il bambino ha di esprimere la propria opinione.

Per quanto riguarda l’Italia, anche se solo da pochi anni, il Legislatore ha promulgatola Leggen.54/2008 dove all’Art. 155 sexies si trovano dei chiarimenti importanti.

L’art.155 sexies recita: “Prima dell’emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti di cui all’articolo 155, il giudice può assumere, ad istanza di parte o d’ufficio, mezzi di prova. Il giudice dispone, inoltre, l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento.

Qualora ne ravvisi l’opportunità’, il giudice, sentite le parti e ottenuto il loro consenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti di cui all’articolo 155 per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli».

Va sottolineato, in particolare, tale articolo poiché riprende quell’aspetto della questione secondo cui la possibilità di esprimere la propria posizione è un diritto e non unaconcessione al minore. In tal senso è previsto l’ascolto del minore come uno degli adempimenti del Giudice, che, appunto, “dispone” di ciò, diversamente da quanto elicitato dalle leggi precedentemente promulgate ed in base alle quali l’ascolto era richiesto ove il magistrato lo ritenesse “strettamente necessario, anche in considerazione della loro età”.

In  considerazione di quanto detto finora, ossia di come negli ultimi anni la legislazione si sia mossa per promuovere l’ascolto del minore, in quanto diritto di quest’ultimo, va sottolineato anche un altro aspetto, non meno importante, ovvero il fatto che tali leggi stabiliscono anche che l’ascolto del figlio minorenne non possa essere assimilato a un mezzo di prova. Esso non deve essere finalizzato ad acquisire elementi istruttori, bensì solo a garantire al minore il suo diritto ad esprimere i suoi bisogni ed i suoi desideri ed insieme il suo diritto ad essere informato dal giudice sui termini della controversia in cui è coinvolto in modo che venga limitata la confusione che può derivare da informazioni parziali ed interessate, fornite dai genitori in lite fra loro.

Il minore, quindi, non è testimone nel processo ed il Giudice non può interrogarlo su fatti specifici riguardanti la vita familiare, se non fosse così il diritto ad essere ascoltato ed informato su quanto gli sta accadendo si tradurrebbe in un dovere di testimonianza.

  L’ascolto del minore in mediazione

 In tale contesto, e a conseguenza di quanto disposto dalla norma, risulta opportuno e più che mai urgente e rilevante che tutti gli esperti del settore, ed in particolare coloro che si occupano di mediazione familiare si pongano tale quesito, ovvero se e come far entrare o meno i pensieri e le opinioni dei figli all’interno del percorso di mediazione, tenendo conto del fatto, e voglio specificarlo ancora una volta, che lo scenario giuridico italiano dell’ultimo decennio si è ribaltato così che il minore ha oggi ancor più di prima diritto di parola.

Occorre domandarsi, nello specifico, se, sul piano della mediazione, il mediatore familiare debba consentire al bambino di esprimere le proprie opinioni. E, nel caso che si trovi un accordo in senso positivo, bisogna poi chiedersi in che modo far avvenire ciò. Vale a dire, come permettere al bambino di esprimersi liberamente non dimenticando mai che ciò avviene all’interno del contesto di mediazione, un contesto in cui ci si attende che i genitori possano esprimere il conflitto che è alla base dell’interruzione del flusso comunicativo tra i due, per poterlo sciogliere; di conseguenza, occorre fare attenzione a non correre il rischio che le opinioni del minore vengano recepite solo secondo la logica che vede i genitori impegnati nel conflitto.

Inoltre, e aggiungerei soprattutto, bisogna capire come evitare che tale ascolto si traduca nei bambini in un ulteriore momento di sofferenza e sopraffazione, in una situazione, che li vede assistere alla separazione dei propri genitori, già di per sé difficile da gestire.

Proprio tenendo conto di tali quesiti, in Italia il dibattito su tale argomento ha da sempre visto le diverse Associazioni di mediatori familiari assumere posizioni molto diverse, ad esempio l’AIMS si è da sempre mostrata poco favorevole alla presenza dei bambini nel percorso di mediazione.

In particolare, tali posizioni si differenziano in riferimento a quanto tale partecipazione del minore possa risultargli deleteria, in quanto egli entra in contatto con la dinamica conflittuale messa in atto dai genitori. È anche vero che è utopico pensare che una coppia di genitori in separazione abbia una forza e una “lucidità” tale da tenere i figli fuori da ogni tipo di dinamica conflittuale. Proprio per tale ragione l’ingresso del minore nel percorso di mediazione può esser visto come una possibilità di far comunque partecipare quest’ultimo alla separazione, ma in maniera più controllata e, quanto più possibile, non deleteria.

Il percorso di mediazione si trasformerà, quindi, nel luogo dove il minore sarà libero di poter esporre i propri desideri e bisogni, cosi come le proprie paure e preoccupazioni. Tutto ciò risulterà positivo su più versanti; se da un lato si permetterà al minore di potersi esprimere nel modo a lui più congeniale, dall’altro lato si permetterà ai genitori di porre l’attenzione su quella che è la dimensione genitoriale, mettendo in secondo piano la dimensione conflittuale. Inoltre è anche un modo per “liberare” il bambino della, quasi sempre automatica, auto investitura come mediatore. Un modo che definirei ufficiale, in cui gli si permette di tornare ad essere “solo” il figlio, mentre sarà lo specialista ad occuparsi del resto. In effetti, ciò che con sempre maggiore forza sta venendo fuori è che tale pratica comporta grossi benefici anche, e soprattutto, ai minori.

Difatti, per quanto si possa cercare di proteggerli non è possibile pensare di tenere i bambini allo scuro di quanto gli accada intorno, non si può realmente pensare che essi, se non inseriti nel percorso di mediazione, saranno protetti dal conflitto in cui sono impegnati i genitori. La mediazione deve quindi diventare la situazione in cui tale coinvolgimento sia messo in atto nella maniera più positiva possibile e con strumenti idonei.

Capita spesso che proprio i tentativi, mal diretti e mal riusciti, dei genitori di “proteggere” i propri figli siano poi, in realtà, accompagnati dall’insorgenza nel minore di sintomatologia, o addirittura di patologie, che la letteratura sempre di più collega a situazioni di separazione/divorzio. Ciò che si può fare nel percorso di mediazione, pertanto, non è tanto capire quale genitore il ragazzo preferisce o con chi si trovi meglio, ma permettergli di esprimere in un contesto protetto la propria esperienza, evitando, tra l’altro, di fargli ricevere informazioni errate ed inesatte su quanto sta accadendo ai suoi genitori cioè alla sua famiglia.

 Mediazione come mezzo per dare voce al minore

 Come più volte precisato fin’ora, l’importanza della presenza del figlio durante la mediazione risiede nel fatto che tale percorso può, e deve,  risultare un’occasione per dar voce ai suoi pensieri.

Non bisogna comunque dimenticarsi che i soggetti in mediazione restano i membri della coppia e quindi, in questa prospettiva, risulterà più chiaro che il compito del mediatore è quello di permette ai genitori di aver ben presenti quali sono i reali bisogni dei propri figli. Proprio in questo senso egli deve permetter loro di abbandonare l’immagine idealizzata che essi hanno dei figli per poter, invece, avere chiaro la complessità di questi soggetti che si trovano a dover fronteggiare la fine della loro famiglia così come la conoscevano.

Può essere utile in tal senso che ai minori sia data la possibilità di chiarire la complessità e l’ambiguità dell’esperienza relativa alla separazione/divorzio dei propri genitori. Essi devono quindi avere la possibilità, all’interno della stanza di mediazione, di avere uno spazio neutro, in cui poter “sfogare” ogni tipo di pensiero inerente alla loro storia di vita familiare.

 Conduzione del percorso di mediazione

Affinché il minore possa entrare nella maniera più produttiva ed efficace nel percorso di mediazione e necessario che vengano apportate delle modifiche alla tipica struttura di questo. Nello specifico mi riferisco alla possibilità di aggiungere incontri aggiuntivi, ognuno con uno scopo ben specifico.

Il  primo colloquio è di preparazione all’incontro con i bambini. Durante tale colloquio il mediatore ed i genitori ragioneranno su quale deve essere lo scopo dell’intervento dei minori. Concorderanno cosa dirgli e come farlo, in particolar modo nei casi in cui, come spesso accade, i genitori comunicano per la prima volta in modo chiaro ai bambini che cosa sta succedendo tra di loro.

Un secondo incontro è quello condotto con tutta la famiglia. Durante questo verrà condotto il colloquio con i bambini e verrà somministrata la tecnica scelta (il disegno congiunto o il Lausanne Triadic Play). In tale occasione si parlerà in modo chiaro della separazione/divorzio e, di conseguenza, bisogna essere del tutto certi che i bambini non vadano via con incertezze o sentimenti di difficoltà.

Nel colloquio successivo, alla sola presenza dei genitori, il mediatore ragionerà con questi su quanto accaduto in sede di mediazione con i bambini. L’analisi del lavoro fatto e delle dinamiche messe in atto da figli e genitori dovrebbero permettere a quest’ultimi di focalizzarsi più che mai sulla dimensione di genitorialità, mettendo da parte il conflitto.

Alla fine della mediazione, inoltre, è opportuno avere un ulteriore incontro con i bambini, cosicché i genitori possano, in un ambiente neutro e sicuro, comunicare le decisioni prese e quindi i futuri sviluppi della situazione.

Tecniche specifiche per l’ ascolto del minore in mediazione

 Trattandosi di minori sarà necessario, tra le altre cose, che il mediatore decida quali siano le modalità più adatte per comprendere al meglio ciò che i bambini stanno esprimendo. Anche in questo caso, come nei colloqui psicologici, si considera preferibile l’utilizzo di tecniche che non siano basate esclusivamente sul colloquio.

Nel caso specifico della mediazione, faccio riferimento a due tecniche in particolare, ovvero al disegno congiunto della famiglia ed Lausanne Triadic Play.

 Il disegno congiunto della famiglia prevede la realizzazione, da parte della famiglia al completo, di un disegno che rappresenti tutto il nucleo, così come appare allo stato attuale, durante il compimento di una attività.

Ognuno può disegnare il personaggio che preferisce ed in qualsiasi posizione del foglio. L’unica limitazione prevista è quella relativa al fatto che ogni membro impegnato durante il disegno stesso utilizzi sempre il medesimo colore, in modo da poter consentire, successivamente, al mediatore una facile identificazione, attraverso questo, dell’ideatore.

Nello specifico, la consegna che va fatta alla famiglia è: “Disegnate la vostra famiglia mentre sta facendo qualcosa. Ciascuno può scegliere un colore che dovrà mantenere fino alla fine del disegno. Ciascuno può disegnare se stesso o altri. Ognuno può disegnare le persone in qualsiasi posizione sul foglio. Si può decidere liberamente di disegnare insieme o da soli.”

A prescindere dalle diverse varianti esistenti l’importanza di tale tecnica sta nel prevedere che tutti i componenti del nucleo familiare lavorino su di un unico obiettivo specifico, percependo di non avere alcuna limitazione.

 Risulta ovvio che, durante tutto il tempo impiegato dalla famiglia per terminare il disegno, il mediatore dovrà restare in silenzio evitando di intervenire fino alla fine del disegno. Il suo compito durante questo tempo sarà quello di osservare attentamente quanto emerso.

Altra tecnica è il Lausanne Triadic Play (LTP), conosciuto in Italia come il Gioco triadico di Losanna, una metodologia elaborata da Elizabeth Fivaz-Depeursinge e Antoinette Corboz-Warnery .

Facendo riferimento alla teoria sistemico relazionale che per prima ha definito che l’unità di base di studio non è la diade madre-bambino ma la triade madre-bambino-padre, le autrici hanno ideato il “gioco triadico di Losanna” con l’idea di osservare la famiglia come insieme, e di conseguenza come unità.

La prova si costituisce di quattro parti. Nella prima fase la madre e il bambino/i giocano insieme mentre il padre osserva rimanendo in una posizione periferica, in secondo momento il padre e il bambino/i giocano insieme, a questo punto è  la madre ad osservare in disparte, la terza fase prevede che tutti i membri della famiglia, ovvero padre, madre e bambino/i giochino insieme, infine nella quarta ed ultima fase è il bambino/i ad esser messo in posizione periferica, mentre i due genitori parlano insieme.

È importante precisare che queste quattro fasi non vengono studiate a se stanti, ma sono studiati anche i momenti di transizione, ossia le capacità di negoziazione, coordinazione tra i tre membri del sistema, difatti grande interesse deve esser posto alla capacità della famiglia di collaborare e/o di organizzarsi nelle e tra le fasi. In entrambe le tecniche da me accennate è di fondamentale importanza il lavoro che il mediatore farà poi con i genitori. Infatti il suo compito, come ho provato a mostrare nel presente lavoro, sarà guidare i genitori nel comprendere appieno quanto e cosa i figli abbiano da dire così da poter permettere loro una maggiore sicurezza e stabilità e da poter svolgere appieno il loro compito di genitori separati.

 Dr.ssa Paola Petruzziello

Fonte: Lex et Jus